mercoledì 31 ottobre 2018

Il ritorno delle Fettine Panate




Da bambina non guardavo gli anime. Per vari motivi, tra cui la diffidenza dei miei genitori rispetto all'animazione non-Disney e problemi tecnici di ricezione dei canali Mediaset, come raccontavo qualche tempo fa

In compenso ho il nitido ricordo di aver posseduto da piccolissima svariate audiocassette di Cristina d'Avena, probabilmente regali di conoscenti benintenzionati, che ho ascoltato fino a consumare il nastro. Questo è il motivo per cui conosco fin dalla prima infanzia le sigle più famose di quei cartoni animati che non ho mai visto e, insieme a queste tracce, alcuni strani componimenti che solo a distanza di molto tempo, da adulta, sono riuscita a identificare come canzoni componenti la colonna sonora di una serie tv di cui Cristina d'Avena era la protagonista, una studentessa in medicina che nel bel mezzo degli episodi prendeva a cantare vaghe liriche ispirate a temi pedestri anzichenò, come il valore della simpatia, la magia dei tredici anni, il logorio della vita moderna e via dicendo. All'epoca -avevo quattro o cinque anni- si trattava di testi per me assolutamente incomprensibili, come del resto le orecchiabili sigle riferite a cartoni che non guardavo (mi sono arrovellata a lungo sul significato della sigla degli Orsetti del Cuore), ma tutto mi si impresse nel cervello in maniera così profonda che a quasi trent'anni di distanza mi è stato sufficiente scorrere i titoli della compilation Arriva Cristina su Wikipedia per ricordare perfettamente tutti i brani.



Esplorando però questo oscuro mondo riportato alla luce da un meandro del mio cervello, mi sono resa conto che non si trattava che della punta dell'iceberg. Ho infatti scoperto che l'assurda serie con protagonista Cristina d'Avena nei panni di se stessa era in realtà uno spin-off di un prodotto televisivo ancora più improbabile: una versione live action dell'anime Kiss me Licia in cui Cristina d'Avena interpretava l'eponima eroina (!!!!!!). Sì, esiste (e probabilmente molti tra voi lo sapranno da sempre) una famiglia di telefilm degli anni '80, costituiti da un esorbitante numero di puntate, in cui Cristina d'Avena interpreta la Licia di Kiss me Licia (altro cartone giapponese di cui conoscevo la sigla grazie alle famose audiocassette senza averne mai vista una sola puntata) in un sequel con attori in carne ed ossa inventato di sana pianta dalla rete Fininvest per accontentare il pubblico italiano, che aveva amato a tal punto il cartone originale da trasformarlo in un fenomeno di culto.

Ma cosa sto guardando?!
Cristina d'Avena e un cast di attori vestiti e acconciati in maniera delirante per cercare di replicare nella realtà le improbabili fattezze dei personaggi disegnati vengono ridoppiati con le stesse voci dell'anime, per suggerire, immagino, maggior continuità col prodotto originale, con effetti disturbanti a dir poco. Abbiamo così interazioni allucinate tra un tizio con capelli giallo paglia macchiati di rosso e felpe sbiadite, ossia il love interest "trasgressivo" della protagonista, un tale coi baffi impomatati e una mise da pizzaiolo della Napoli ottocentesca che interpreta il padre, un inquietante pargolo bardato di cappelluccio sulla parrucca ricciuta nella parte del fratellino di lui, e l'immancabile gatto Giuliano (nome tipicamente giapponese) che è, beh, un gatto

Di gran lunga l'attore più espressivo.












La trama, già piuttosto debole in partenza (Licia è una ragazza acqua e sapone che intreccia una relazione con il frontman di una rock band, sotto gli auspici del fratellino minore nella parte dell'improbabile pronubo e malgrado l'ostilità del protettivo padre di lei) viene stirata e avviticchiata su se stessa per l'incredibile numero di centosettanta puntate, articolate in quattro diverse serie (Love me Licia, Licia dolce Licia, Teneramente Licia e Balliamo e cantiamo con Licia). Non ho il cuore di guardarle, ma la pressante domanda "come avranno fatto ad allungare il brodo a tal segno?" non resterà senza risposta.

Circolano infatti ormai in rete le serie integrali, dalle quali solerti internauti hanno estrapolato alcune sequenze diventate instant-cult. La più famosa è quella delle fettine panate, una punta inarrivabile nella storia della televisione italiana, quasi un'icona antropologica. E' una sequenza che dura poco più di un minuto e che vi darà la sensazione di essere sotto l'effetto di sostanze psicotrope mentre assistete allo sconcertante teatrino di Licia-Cristina, Mirko il cosiddetto rockettaro e il pargolo ricciuto che disquisiscono di fettine panate pronunciando per l'appunto queste parole ("fettine panate") non meno di una decina di volte in sessanta secondi. Guardatela. Però vi avverto: riderete, ma non vorrete rivederla una seconda volta. Il livello di trash inizialmente è talmente scioccante che la reazione naturale è la risata incredula. Ma resta sottopelle, come un'intossicazione, e lentamente comincia a rilasciare le tossine. Ripensandoci proverete disagio, addirittura un senso di malessere, l'impressione di aver visto qualcosa del nostro passato collettivo e nazionale che le sabbie del tempo avevano inghiottito e che archeologi dei massmedia hanno tratto alla luce in maniera improvvida, un po' come gli idoli d'oro dei templi aztechi nei film di Indiana Jones, sempre forieri di sventura. Forse è meglio che un certo passato rimanga nel buio per sempre.


Per esorcizzare, comunque, può aiutare l'ascolto sempreverde di Elio, con Arriva Clistere

lunedì 17 settembre 2018

IMPRESSIONI (agricole) DI SETTEMBRE

Quest’anno non ho fatto il consueto post sull’orto estivo, perché, lo confesso, è venuto male. 
Non il post, proprio l’orto!

Non so perché, non è che abbia fatto molto di diverso dagli scorsi anni, ma sono venuti pochi pomodori, poche zucchine, pochi peperoni…. in compenso molti cetrioli, ma i cetrioli non sono trendy, e sono pure troppo acquosi. C’è stato un momento di grandioso successo in cui il mandorlo ha finalmente restituito un bel po’ di dolci frutti dopo anni, ma per il resto è stato un fallimento. (Dile non ha infierito, da brava moglie che si accorge della frustrazione del marito che si crede un agricoltore).
Tuttavia, mi son detto che la mancanza di un post sui frutti di agosto poteva essere un’opportunità per farne uno su quelli di settembre!

Settembre è un mese strano, un mese-soglia: qualcosa finisce (l’estate, le vacanze, le giornate lunghe) e qualcosa ricomincia (l’anno scolastico, le attività delle varie associazioni, la quotidianità in generale). E per l’uomo è così perché egli ricalca i ritmi della natura: anche per le piante questo periodo è di passaggio. Dopo il risveglio primaverile e l’abbondanza succosa dell’estate, la stagione lascia il passo lentamente a colori più tenui, sapori più complessi, tempi più lunghi…. fino alla nostalgia autunnale e al riposo dell’inverno.
I frutti di settembre sono come le persone mature che si avviano alla vecchiaia: hanno una vita ricca dietro di sé, e non si lasciano conoscere facilmente, ma se si ha pazienza e costanza se ne scopre il valore, la dolcezza e l’unicità.

Prendiamo ad esempio quello che nasce qua in via delle Cose Nuove: melograni, noci, semi di finocchietto. Sono cose che già di per sé non sanno di gioventù: hanno qualche ruga (le noci), qualche spina (il melograno), devono essere lasciati seccare (il finocchietto); necessitano di un certo lavorìo per essere raccolti (le noci), per essere mangiati (il melograno), per essere pronti all’uso (il finocchietto).
Persino nei loro colori – che anche un daltonico come me riesce a percepire, talvolta – sono tenui, sfumati, e insieme rustici. Guardateli, già da appena colti sembrano un quadro di natura “morta”:


Eppure, sono anche gustosi, versatili, e abbondanti: l’albero delle noci quest’anno in particolare è stracarico, il finocchietto (che praticamente è una pianta infestante) arricchisce generosamente arrosti e tisane, e il melograno ha un succo dolcissimo e sanissimo.

Ah, quasi dimenticavo, poi c’è lei. Che non cresce  nel nostro orto, ma nel campo di mio padre.


L’uva è la regina dell’autunno. Sta a settembre come il pomodoro a agosto.
E ci dà quel vino che è come il dono più maturo dell’estate che finisce: nei giorni brevi e freddi dell’inverno, ci ricorderà la gioia e l’allegria del sole d’agosto.

giovedì 21 giugno 2018

L'Alveare che dice... perché no?

Negli anni, qua in Via delle Cose Nuove, abbiamo sperimentato diversi modelli di acquisto alimentare alternativi al classico Supermercato, guidati dalla ricerca di una maggiore stagionalità dei prodotti e dal criterio del Km0 (diciamo tendente allo 0, a parte l'orto di casa). 
Si va dalle botteghe di paese alla partecipazione al GAS di Reggello – un paese qua vicino –, fino alla creazione di un GAS con alcuni nostri amici (lo stanzino esterno di casa nostra, più meno sempre aperto, fungeva da magazzino con conseguente via vai di gente... rimarrà negli annali).
Tuttavia queste buone pratiche, eticissime e lodevoli, dopo un po' si arenavano, vuoi per il troppo impegno richiesto per star dietro a ordini, pagamenti e ritiri, vuoi per le pause estive da cui spesso non ci si riprende, vuoi per la scarsa partecipazione sul lungo periodo, vuoi per i prezzi alti e i tempi di attesa lunghi (questo vale soprattutto per le botteghe di paese, alla lunga snervanti)
Finalmente, da un po' di mesi, pare che abbiamo finalmente trovato la soluzione ideale, che coniuga gli ideali etici della produzione locale e stagionale con un'estrema praticità nella gestione degli ordini e dei ritiri, grazie all'apporto del web.
Si tratta dell'Alveare che dice sì! 


Il modello nasce in Francia un po' di anni fa, ma si è diffuso a macchia d'olio (extra-vergine, si intende) in tutta Europa, Italia compresa. E da poco meno di un anno pure il Valdarno vanta il suo Alveare, grazie all'Associazione TerraFranca di Castelfranco Piandiscò! (il nostro glorioso comune)
Il principio è piuttosto semplice: c'è una piattaforma web centrale a cui può aderire chiunque voglia fare da gestore di un Alveare locale. Questa persona si occupa di contattare/trovare:
- le aziende del territorio (secondo alcuni criteri di ecosostenibilità ecc, ma non molto stringenti, anzi piuttosto liberal, tranne il fatto di dover risiedere a meno di 250km dalla sede dell'Alveare), proponendo di aderire al progetto e cercando sempre più di allargare l'offerta.
- una rete di potenziali consumatori residenti nel territorio, soprattutto via web, proponendo di aderire al progetto e stimolandoli nel tempo a contribuire.
- una sede dell'Alveare, che può essere il negozio di uno dei produttori, un fondo del gestore ecc..., dove poter allestire una volta a settimana il "mercato" dei prodotti.

Dalla parte del consumatore funziona così: si aderisce dalla piattaforma web a uno o più Alveari del proprio territorio; ogni settimana si apre l'ordine online, e resta aperto per 5 giorni; se si vuole comprare qualcosa, si va sulla pagina del proprio Alveare, si scorrono i prodotti, si comparano i prezzi, si ottengono informazioni sulle aziende, si riempie il proprio carrello virtuale, e si paga infine con carta di credito... il tutto mooolto user-friendly; si riceve una mail con il riepilogo e un codice relativo all'ordine, di solito un semplice numero; due giorni dopo la chiusura dell'ordine, si va ad un orario stabilito (per il Valdarno dalle 18.30 alle 20) alla sede dell'Alveare e si ritira comodamente il proprio ordine.
Questa fase finale è in realtà la più carina: ogni produttore ha già pronto un sacchetto (o una cassetta) con il numero d'ordine relativo ad ogni consumatore, e sta ad un tavolo come fossimo ad un mercato. Ma non è un mercato, perché manca una delle componenti che maggiormente mina la possibilità di instaurare relazioni aperte e dirette con i produttori, ovvero lo scambio di denaro: questa parte un po' fastidiosa, infatti, è già avvenuta, e al momento del ritiro ci si può concentrare sullo scambiare quattro chiacchiere, e perché no sul gustare qualche assaggino di nuovi prodotti! 


Per quanto riguarda il produttore, che sceglie il prezzo di ogni prodotto, l'adesione all'Alveare comporta la riduzione del 20% di guadagno sul prezzo stabilito: infatti, il 10% va alla piattaforma web dell'Alveare, e l'altro 10% al gestore. Quindi il produttore guadagna l'80% sul costo del prodotto. A conti fatti, non è malissimo.
Certo, questo significa che il consumatore spenderà più che al Supermercato. Ma ne guadagnerà in freschezza dei prodotti, trasparenza nella produzione, stagionalità, bontà, conoscenze nuove, scambi interpersonali arricchenti, e pure quel dolce retrogusto di aver fatto qualcosa di etico e alternativo, che non guasta!

P.S. Ci sono diverse voci critiche sull'Alveare, che farebbe del business aziendale centralizzato sulle "spalle" dei produttori locali... ma secondo noi fare del business in sé non è affatto una colpa, e non è fatto sulle spalle di nessuno, bensì "dando una mano" a quei piccoli produttori che rischiano di essere mangiati dal modello globale del consumo alimentare.

P.P.S. Sia ben chiaro: nessuno ci ha pagato per fare pubblicità all'Alveare!! Con i pochi lettori che abbiamo sarebbe perfino assurdo (e questi vogliono fare business, ve l'abbiamo detto!). Semplicemente, ci stiamo trovando bene, e vogliamo diffondere le cose che ci sembrano ben fatte.




venerdì 27 aprile 2018

Antologia dell'Infanzia



 Credo che ognuno di noi abbia una sua "antologia dell'infanzia", una raccolta di libri che hanno caratterizzato i primi anni da lettori, e che tendiamo a ritenere quasi imprescindibili sullo scaffale di un bambino o di un ragazzo. Da bambina ho potuto beneficiare di genitori pronti a incoraggiare la mia passione per la lettura. Mi sono state regalate decine e decine di libri, e sono diventata una precoce frequentatrice di biblioteche. Ho letto veramente un'infinità di libri per bambini, ed è chiaro che sui grandi numeri è più che naturale che vada a formarsi un gusto preciso. Questa antologia che propongo di seguito non vuole essere in alcun modo un canone: è solo una serie di libri ed autori che per me hanno rappresentato un punto fermo nell'esperienza da lettrice, arricchendomi, consolidando i miei gusti in certe direzioni, contribuendo alla formazione di una certa visione del reale e di cosa significa leggere un libro bello. I criteri che l'amore per questi libri e questi autori hanno fatto nascere in me sono tutt'ora all'opera quando leggo.


Ci sono almeno altre due cose da dire: ho riportato solo libri "per bambini" o considerati tali, nonostante io abbia letto anche molti libri "per adulti" molto prima di diventare adulta: e penso ancora che, con le dovute eccezioni, in linea di massima saltare a piè pari l'ibrida letteratura per ggggiovani adulti non sia grave, anzi. 
E, cosa molto più importante, in questa scelta rientrano anche alcuni libri che, pur essendo "per bambini", hanno un valore letterario pari a quello dei grandi classici, e superiore a moltissimi libri "per adulti" che mi sia capitato di leggere.
Eccovi dunque la mia (soggettivissima) antologia dell'infanzia. In ordine sparso.



-Tolkien: Lo Hobbit, Il cacciatore di Draghi, Roverandom.
-Lewis: Le cronache di Narnia.
-Bianca Pitzorno: li ho letti tutti, dato che è stata a lungo la mia autrice preferita, ma i miei preferiti restano Ascolta il mio cuore e Polissena del Porcello.
-Astrid Lindgren: Pippi Calzelunghe, Emil, Martina, Mio piccolo Mio, I Fratelli Cuordileone e naturalmente quel capolavoro che è Vacanze all'Isola dei Gabbiani.
-A. A. Milne: Winnie the Pooh e La strada di Pooh.
-Roald Dahl: Le streghe, Il GGG, La fabbrica di Cioccolato, le sue due struggenti autobiografie Boy e In solitario, e, beh, c'è bisogno di dirlo? Matilde, naturalmente!
-Tove Jansson: tutti i libri dei Mumin. Ma soprattutto Magia d'Inverno.
-Salgari: il ciclo dei pirati (i corsari erano troppo eleganti per me). La prima storia che mi ha fatto balenare in testa il concetto di "romantico" è stata proprio Le tigri di Mompracem.
-P.L. Travers: Mary Poppins.
-Roberto Piumini: Lo Stralisco e Denis del pane.
-Michael Ende: Momo ma soprattutto La storia Infinita, libro davvero imprescindibile.
-J.K.Rowling: Harry Potter. Tutta la saga, anche se i libri finali sono usciti quando ormai non ero più tanto bambina. Diciamo che faccio parte di quella generazione che, anagraficamente parlando, con Harry è cresciuta.
-Elizabeth Honey: i libri di Stella Street.
-L.M.Alcott: Piccole Donne. C'è da dirlo?

E voi? Qual è la vostra antologia dell'infanzia? 


mercoledì 11 aprile 2018

Scaffali bassi



Quelli che vengono biasimati per leggere libri infantili in età matura sono gli stessi che da piccoli venivano criticati per leggere libri da grandi : ma bisogna tener presente che nessun lettore degno di questo nome si regola in base al calendario.
C.S. Lewis, “Tre modi di scrivere per l’infanzia”

Ci sono libri per bambini e ragazzi che sono capolavori della letteratura. E ci sono libri per bambini e ragazzi che non sono capolavori della letteratura ma che tuttora leggo con un piacere maggiore di quello che mi darebbero moltissimi libri "per adulti".

Non mi è chiara la distinzione che vorrebbe vederci cambiare personalità col sopraggiungere dell'età adulta. Le cose che ci piacevano da bambini, se erano veramente belle e degne, ci piaceranno anche da adulti. Trovo comprensibile che un adulto preferisca battere la testa contro il muro piuttosto che leggere un libro di Geronimo Stilton, ma francamente non mi è molto chiaro nemmeno perché Geronimo Stilton dovrebbe essere propinato a un bambino. Io stessa, come capo scout, educatrice, baby sitter e via dicendo, insomma, in tutti gli ambiti educativi  in cui ero a stretto contatto con bambini delle elementari, ho incontrato bambini che leggevano solo Geronimo Stilton. Non ho mai potuto fare a meno di chiedermi, però, se qualcuno avesse offerto loro qualche alternativa valida o li avesse incoraggiati in altre direzioni. Un libro che convince solo quando siamo bambini non può, alla fine dei conti, essere un granché. Il buon vecchio Lewis, nel breve, fulminante scritto da cui ho tratto la citazione in testa al post, Tre modi di scrivere per l'infanzia, osserva che un modo a suo avviso sbagliato di scrivere per l'infanzia è quello che porta a propinare ai bambini quello che pensiamo interessi loro, anche se a noi non interessa affatto: dare al pubblico quello che vuole, insomma. Ai bambini piacciono i colori, le scritte a caratteri grossi e stravaganti, le figure, e naturalmente i topi, tutti sanno che ai bambini piacciono i topi, quindi, ragiona l'editore, riempiamo un bel po' di pagine di questa roba (sì, giusto, mettiamoci anche una qualche pseudotrama scritta da un povero schiavo della casa editrice il cui nome non figurerà sulla copertina) e daremo ai bambini quello che vogliono: ecco il miracolo! Abbiamo creato il "libro per bambini"! Libro che a noi ovviamente fa venire il latte alle ginocchia, che non ci sogneremmo mai di sfilare dallo scaffale di una libreria, che ci fa persino un po' ribrezzo con quella profusione di colori pacchiani, ma che non abbiamo scrupoli a propinare a qualsiasi figlio, nipote, conoscente sotto i dieci anni cui dobbiamo o vogliamo fare un regalo. (Pensiero a parte: dell'educazione alla lettura non dovrebbe anche far parte una sorta di educazione estetica? Forse è assurdo, ma quando compro un libro per un bambino, soprattutto un bambino che conosco bene e che è mio amico, la bellezza delle illustrazioni, dell'impaginazione, la piacevolezza del libro come oggetto ha un peso significativo).

Penso che l'unica variante autorizzata a determinare la differenza tra la biblioteca personale di un bambino e quella di un adulto sia la progressiva crescita della capacità di comprensione che una persona sperimenta con il passare degli anni. Il solito Lewis usa una bella metafora per spiegare questo processo:
"Oggi mi piace il vino bianco che da ragazzo non avrei apprezzato, ma continua a piacermi la limonata. E' un processo di crescita nel quale mi sono arricchito. (…) Se per acquisire il piacere del vino avessi dovuto perdere quello di una spremuta di limoni, non si sarebbe trattato di crescita ma di semplice cambiamento. (…)Un albero cresce perché si formano nuovi anelli, un treno che lascia una stazione per arrivare alla prossima non cresce affatto."
Così, libri per l'infanzia o per ragazzi veramente degni di essere letti continueranno a stupirci e appassionarci anche quando saremo adulti, e dentro i nuovi anelli che le esperienze che abbiamo vissuto  e le idee che abbiamo elaborato hanno fatto crescere sulla nostra scorza, restano i vecchi anelli del giovane tronco che eravamo un tempo, che hanno formato il nucleo dei nostri piaceri letterari e che ancora oggi ci stupiscono e ci danno gioia.

Non mi vergogno di leggere libri per bambini, ancora oggi, e non solo quelli che ho avuto la fortuna di leggere e amare da piccola: c'è sempre tempo per fare nuove scoperte. Lewis osservava giustamente che la vergogna per tutto quello che è "bambinesco" non è tipica dell'età adulta, ma propria delle persone che ancora adulte non sono. Un adolescente è ansioso di sembrare grande ed ha paura che leggere i libri che gli davano gioia qualche anno addietro possa farlo sembrare ancora un bambino. Un adulto, in teoria, dovrebbe aver superato la paura di non sembrare adulto, sapere di esserlo e quindi aver fiducia nel suo stesso giudizio, anche in fatto di libri. Quando avevo otto anni e leggevo Winnie the Pooh, sapevo solo che era bello e che mi commuoveva. Se lo rileggo oggi, e scopro che è ancora bello e ancora mi commuove, la conclusione logica non è che sono rimasta allo stadio infantile, quanto che Winnie the Pooh è un bel libro, che merita di essere riletto ad ogni età. Un paio di anni fa ho letto La città dei libri sognanti, di Walter Moers: è un libro per ragazzi, con tanto di illustrazioni in pagina, ma non posso che consigliarlo a chiunque, dai 9 ai 99 anni: è splendido, pirotecnico, sorprendente e sottile (e parla di libri: un libro per veri libridinosi). E, in linea generale, nel mio empireo ci sono parecchi libri per l'infanzia, nel senso che annovero libri per l'infanzia anche nella lista adulta dei libri più belli che abbia mai letto . Alcuni infatti sono grandi libri, che scavano profondamente nel mistero della persona umana e del suo rapporto col mondo, pieni di una ricca atmosfera poetica che fa risuonare corde profonde.  Scegliere di scrivere per l'infanzia vuol dire (o dovrebbe voler dire) scegliere una modalità espressiva più che una gradazione di qualità.
Per questo, al contrario, spesso (e con le dovute eccezioni) non mi entusiasmano i libri diretti ai cosiddetti young adults, fascia di mercato evidentemente molto ambita. C'è qualcosa di fastidioso in sé nell'idea che si tratti di libri "non per adulti", bensì per giovani che in teoria si dovrebbero "vergognare" di leggere libri per bambini o ragazzi ma ai quali è bene non rifilare qualcosa di troppo complesso. Perché è così frequente che la letteratura dell'adolescenza perda la poesia e la profondità di quella dell'infanzia senza acquistare alcun tipo di spessore nuovo e diverso?

Da quando insegno alle medie, ho persino una scusa professionale per curiosare tra gli scaffali di biblioteche e librerie dedicati ai più giovani. Porto i miei studenti in biblioteca almeno una volta al mese e voglio poter dare pareri, quando me li chiedono, con cognizione di causa (per non parlare del fatto che voglio che sappiano, quando scrivono le loro schede di lettura, che le probabilità che li scopra se barano sono discrete). Ma soprattutto voglio che siano consapevoli che, quando consiglio loro un libro per ragazzi, non lo faccio con condiscendenza ("sì, leggiti pure questa roba che sembra così adatta a te"), ma lo faccio perché l'ho letto, lo apprezzo seriamente e la considero una lettura che ha una dignità, e in certi casi una lettura imprescindibile per gli adulti come per loro.
Quindi leggete libri per bambini e ragazzi, senza vergogna! Leggeteli sull'autobus, in treno, in pubblico, comprateli in libreria senza fingere che siano per vostro nipote, prendeteli in prestito in biblioteca senza arrossire. Alcuni sono piaceri della vita di cui sarebbe un peccato privarsi. Qualche suggerimento? Alla prossima puntata!

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domenica 1 aprile 2018

Pasqua


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"La Divina Provvidenza questo ha avuto di mira, questo ha comunicato, questo ha voluto insinuare negli occhi e nei cuori dei suoi: la ferma certezza che il Signore Gesù Cristo era veramente risuscitato, come realmente era nato, realmente aveva patito ed era realmente morto."

San Leone Magno

martedì 27 marzo 2018

Into the wild




Ora che la primavera è arrivata (per lo meno secondo il calendario) possiamo raccontarlo.
Il finesettimana tra il 3 e il 4 marzo da queste parti come un po' in tutta Italia il clima era polare. La montagna qua sopra era non semplicemente innevata, ma sommersa di neve. Burian stava creando problemi un po' dappertutto, ma noi avevamo un progetto da realizzare, e la neve ci serviva.
Ok, forse non così tanta, ma insomma, tutto stava andando secondo i nostri piani.
Cosa abbiamo fatto? Abbiamo dormito in una truna, cioè in un rifugio costruito con la neve. A oltre mille metri di altezza. E, beh, come potete arguire dal fatto che state leggendo queste righe, siamo sopravvissuti. Io, contrariamente alle aspettative, non mi sono neanche ammalata (ma non posso dire che a scuola, il lunedì dopo, fossi esattamente un fiore).
Ed eccovi genesi e resoconto di questa malsana idea.

Io e Dama siamo da un paio d'anni nello staff di una "bottega R/S ": tradotto dallo scoutese, significa che una volta l'anno accogliamo ragazzi e ragazze dai 16 ai 20 anni più o meno da tutta la Toscana per approfondire una specifica competenza nel corso di un finesettimana: nel nostro caso la sopravvivenza in montagna d'inverno. L'anno scorso non eravamo riusciti a realizzare il progetto fino in fondo: il weekend stabilito non abbiamo trovato la neve, anche se ha fatto una generosa nevicata mentre eravamo in quota. Non avevamo potuto costruire le trune, e avevamo dormito in un rifugio del CAI. Quest'anno, di neve ce n'era anche troppa, e prima della partenza Emanuele, nostro efficientissimo collega nello staff, aveva dovuto procurare ciaspole per tutti.
Siamo saliti in Secchieta, cinque adulti e dieci ragazzi: paesaggio scandinavo e condizioni climatiche decisamente non favorevoli. Neve alta e fresca, tanto che, col peso dello zaino sulle spalle, anche le ciaspole non prevenivano dall'affondare. Peggio ancora, veniva giù un nevischio che assomigliava decisamente a pioggia, e quindi bagnava davvero.
Ora, malgrado io sia una scout da tempi immemorabili, era la mia prima vera esperienza con le ciaspole: non mi era mai capitato di camminare nella neve così fresca e così alta col peso dello zaino. Le ciaspole sono utili ma dannatamente faticose e scomode. Complici i miei piedi piuttosto piccoli e la mia assai scarsa coordinazione, sarò caduta almeno quattro volte (tra la commiserazione e lo sconcerto dei ragazzi, ma lasciamo perdere).
Ad ogni modo, per chi di voi si sta chiedendo se davvero alla fine siamo stati così pazzi da dormire nella neve in montagna, la risposta è : l'abbiamo fatto - e la notte è stata di gran lunga il momento più caldo e asciutto dell'intera uscita!

Trune in costruzione!
Le trune si costruiscono scavando grosse buche più o meno quadrate, che possano contenere quattro o cinque persone sdraiate. Con la neve rimossa si forma un muricciolo lungo il bordo, che va consolidato e compattato. Poi si appoggiano al muretto di neve rami sgrossati, per formare una sorta di travatura rudimentale che sorregga il "soffitto", e infine si copre il rifugio con un telone impermeabile da appoggiare sopra i rami e "cementare" al muretto con altra neve. Alla fine si ottiene una struttura bassa, alla quale si accede solo tramite un breve tunnel, e dentro cui si può stare solo sdraiati (ma anche questo è funzionale al mantenimento del tepore, visto che l'aria calda tende a salire). Sul fondo della truna, un altro telone impermeabile per pavimentare.

Ed ecco due trune pronte all'uso!

Tra camminata per raggiungere il luogo stabilito e costruzione dei rifugi, in lotta contro il tempo per finirli prima del buio, non è stato un pomeriggio di tutto riposo. Alla fine eravamo fradici fin nelle mutande. Quindi cambio completo e fuoco (fumoso per la legna umida) dentro la vecchia cara Capanna delle Guardie, un posto tappa noto e amato da tutti i frequentatori della Secchieta. Poi le parti belle di una serata scout: il vecchio tavolo coperto di salsicce da bucare e patate da incartare per cucinare alla trappeur, qualche pesce da fare al cartoccio, i piedi che si scongelano al fuoco, la luce fioca delle torce e delle lanterne, il giornale accartocciato negli scarponi, il cordino di riserva nello zaino teso attraverso la stanza, carico di calzini, maglie e giacche che si cerca (inutilmente) di far asciugare (umidità dell'aria: circa 98%). Quando, sul tardi usciamo dalla capanna per andare a dormire ci sentiamo un po' matti.

Pronta per la nanna!
Non era la prima volta che dormivo in truna. Sapevo per esperienza che, contrariamente a quanto si può immaginare, il freddo prende da sotto, non da sopra: sale dalla terra. Quindi ero organizzata: isolante, materassino autogonfiante, una coperta da mettere sotto, un grande sacco nero condominiale per contrastare l'umido. Prese queste precauzioni, dentro il sacco a pelo da alpinismo sono stata bene: asciutta e, sì, calda, del mio stesso tepore e del calore animale dei miei compagni di truna. Con questo non voglio dire che sia stata una notte comoda: avevamo avuto poco tempo per rifinire il pavimento, che era irregolare e un po' in discesa, e, beh, insomma, eravamo pur sempre in una buca nella neve. Ma eravamo ben isolati e il vento non soffiava: il bosco notturno sembrava fermo in un incantesimo di gelo, senza rumori se non lo scrocchiare della neve sotto i passi.

La mattina sveglia presto (molti erano già svegli… qualcuno meno attrezzato aveva sì e no chiuso occhio), un gran daffare per far colazione, ripulire il bosco e la Capanna dalle nostre tracce, rifare gli zaini impacchettando panni in gran parte ancora bagnati, teli, pale da neve, torce, gavette non lavate. Poi ciaspole ai piedi, con doloretti che si risvegliano in circa trentasette punti diversi del corpo, e si riparte, giù lungo il sentiero che costeggia la montagna, tra sprazzi di panorami affacciati su un Valdarno mangiato dalla foschia, e poi nella foresta secolare di Vallombrosa, fino a raggiungere l'abbazia.


Siamo tornati alla civiltà: stanchi, molto sporchi, abbastanza umidi, trasognati. Ci raccontiamo cosa abbiamo imparato: l'entusiasmo dei ragazzi, anche dei più bagnati e acciaccati, è davvero tanto. I pochi passanti che incrociamo sotto le grandi mura dell'abbazia sembrano alieni al nostro piccolo gruppo di sopravvissuti. Lentamente ci spogliamo dei panni di rover del Grande Nord. Ci togliamo le ciaspole dai piedi. Le ghette dalle gambe. Carichiamo gli zaini sui furgoni. La mente corre alla doccia, al termosifone, ma in fondo un po' ci dispiace. Ci giriamo a salutare il wild che incombe ancora vicino, acquattato già tra la prima penombra degli alberi della foresta, proprio alle nostre spalle.
Abbiamo vissuto intensamente il cuore della montagna d'inverno. Ora, com'è per tutti i reduci, non ci resta che scendere a valle e raccontare l'avventura.