martedì 26 maggio 2015

Pendolando



Ho pendolato quasi tutta la mia vita, cominciando prestissimo. Quando avevo undici anni la mia famiglia si è trasferita fuori Firenze, ed io sono diventata una pendolare in seconda media, per non lasciare la scuola che stavo frequentando. I lunghi viaggi in macchina (quasi un'ora all'andata e altrettanto al ritorno) con i miei genitori e, dopo qualche anno, anche con mia sorella, sono diventati parte integrante di una routine quotidiana che è continuata per più di un decennio, con itinerari studiati per ottimizzare gli spostamenti e strategie per accordare i nostri orari. Questi viaggi in macchina hanno segnato un'intera epoca della mia vita.
Quando mi sono sposata, però, sono entrata a far parte di un fenomeno sociale vero e proprio, ossia quello che accomuna la grande compagine dei Figli delle Ferrovie dello Stato. E che offre incomparabili occasioni di studio antropologico.
A dire il vero, il treno mi piace. Mi piace il rollio regolare del suo andare, che concilia la lettura, mi piace il rumore, tumtumtumtum, la campagna toscana che fugge dal finestrino, sempre la stessa ma diversa ogni giorno per via del tempo che cambia, dell'orario, delle stagioni. Mi piace sbirciare il retro delle case che affacciano sulla ferrovia, prima di Campo di Marte, con i panni stesi e le piante, e l'aria stropicciata e quotidiana. Naturalmente ci sono anche tutti gli aspetti brutti, sgradevoli e insopportabili che conosce benissimo chiunque prenda il treno con regolarità: la folla strabordante delle ore di punta, quando l'unica speranza di procacciarsi uno strapuntino per sedersi rimasto miracolosamente libero è riuscire, con calcoli complessi e un po' di fortuna, a fare in modo che la porta del vagone si fermi esattamente davanti a te e tu sia il primo a salire. Il caldo soffocante delle carrozze "climatizzate" e quindi con i finestrini sigillati, dove però di climatizzazione non c'è traccia e la temperatura interna ricorda quella di una serra per piante tropicali. D'altro canto, niente di meglio per la salute di una carrozza con la climatizzazione attiva e funzionante, e regolata sui -7°, soprattutto quando si sale belli sudati dopo una corsa per acchiappare il treno al volo e neanche uno straccio di golfino per riparare il collo. Ci sono i bagni sistematicamente guasti. Quelli delle stazioni invece sono a pagamento: un euro per prendersi la tua pipì. Che nessuno lo dica al water di casa mia o potrebbe cominciare ad avere strane manie di grandezza. Poi ci sono i ritardi lunghi, esasperanti, scanditi dalla voce sintetica dell'altoparlante che a intervalli regolari rilancia allungando il numero di minuti che ancora attendono tutti noi, inchiodati in questo particolare pezzo di binario tra Compiobbi e Firenze Rovezzano per ragioni sconosciute. L'impassibile altoparlante inserisce una variazione sul tema solo quando il ritardo supera i venti minuti, quando comincia a chiosare "Ci scusiamo per il disagio". Perché, si sa, fino a venti minuti il ritardo invece è un piacere.


L'altoparlante però è anche simpatico, in fondo. In stazione snocciola la sequela delle fermate con strane inflessioni altalenanti, ora affermative ora esclamative, e diventa una filastrocca di posti che non vediamo mai e che tutti ricordiamo esattamente in quel modo, in lunghi spezzoni: "Camucììa Cortona. TerOntola Cortona. Passignaano sul Trasimeno. Magione! Elleraccorciano! Perugia Universitàpperugia. Perugia Pontesangio Vanni. Bastììa! Assììsi! Spello!". L'altoparlante, inoltre, ha una fidanzata che si spaccia per anglofona e produce incomprensibili esternazioni  farfugliate, nelle quali compaiono irriconoscibili pronunce dei posti noti, tali da far sorgere il dubbio se si tratti davvero di quelli che pensiamo noi, come "Riigniianou Sularno Regiellou" o "Coumpiobee". 
Ma il meglio (e il peggio, come sempre) della vita pendolare è rappresentato dall'Umanità Pendolare, che ti circonda e ti accompagna ogni mattina e ogni sera. La signora con trentaquattro valigie che ti fissa indignata quando osi chiedere se puoi sederti, perché pensa chiaramente che la cappelliera sia un posto molto più adatto a te che alla sua preziosa trousse da viaggio Louis Vuitton. Il conversatore telefonico a cinquemila decibel, dei problemi del cui ufficio l'intero vagone è informato minuziosamente. La coppia di adolescenti che si intrattiene pomiciando con tale impegno che ci si chiede se passeranno allo stadio successivo. Lo studente angosciato che usa l'evidenziatore giallo sul libro con la violenza della disperazione, shhhuu, shhuuuu, shhuuu, e la versione serale furente e/o sconsolata che confida all'amico "quello st* mi ha bocciato per la terza volta". Il Senza Biglietto beccato senza biglietto che argomenta iroso che "...voialtri con tutti questi disservizi non vi vergognate a multarci come se fossimo dei delinquenti?" (risposta: "allora, ce l'ha o no un documento?"). Le colleghe che parlano di Quella. Ma sì, dai, Quella. Quella che l'altro giorno lo sai cosa ha fatto? Quella che io lo dicevo da sempre che. Quella che, cioè, ti rendi conto? Quella che dimmi te cosa dovevo rispondere io. Insomma, Quella. Non avete mai sentito parlare di Quella? Vuol dire che non prendete spesso il treno.  


Eppure, questa umanità pendolare mi piace come mi piace il treno. Chi legge, e vorresti chiedergli se il libro è bello. Chi è chino sullo smartphone, e vorresti dirgli che quel livello di Candy Crush è stato difficile anche per te. Le facce pallide di sonno della mattina, che scambiano sorrisi di comprensione tra perfetti sconosciuti, mentre i piedi si scansano per far posto a chi viene a sedertisi davanti. E al ritorno, nell'isola di luce gialla del vagone  che corre nella sera buia, tutti quei visi diversi eppure somiglianti nel misto di stanchezza, sollievo perché anche oggi è andata, impazienza per arrivare a casa, ciascuno accanto al proprio gemello riflesso nel finestrino. Tutti che, come me, oscillano sempre tra dentro e fuori la città, tra abitare e lavorare, tra casa e l'altro da casa, tra dove devo stare e dove voglio stare, come elastici continuamente tesi e rilasciati.
Quando la folla, lungo il binario e nel parcheggio che odora di asfalto, si disperde col brusio della giornata che finisce, saluto mentalmente i miei casuali compagni d'avventura, "A domani!", mentre il treno riparte tumtumtumtum verso Bastììa! Assììsi! Spello! e  sparisce nella notte.

3 commenti:

  1. Bello il tuo post! Anche poetico. A me il treno piaceproprio nel modo e per i motivi per cui piace a te.

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  2. Allora deve essere proprio una cosa di famiglia! ;)

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