mercoledì 26 ottobre 2022

UNA COSA VERAMENTE NUOVA Ep. 3

Insomma siamo qua nei nostri dodici metri quadrati e c’è un bambino che dorme sul letto accanto al nostro. Noi cerchiamo di fare piano, ma anche se sono solo le 8 di sera tra un po’ mi sa che crolliamo a nostra volta. 

Gli ultimi tre giorni sono stati intensi. Troppo complessi per raccontarli. La strada è in salita ma per ora si cammina. Che vi possiamo dire? Gli piace la pasta. A dire il vero mangia di tutto senza farsi troppi problemi. Saluta tutto. Ciao ciao altalena. Ciao ciao statua di cavallo. Ciao ciao piccione. Ciao ciao giardinetti. Ciao ciao pipì (dopo aver tirato lo sciacquone). 

Ha imparato le prime parole italiane: acqua e “spento!” (anzi SPEN-TUO!), questo dopo aver spento la luce, gioco inesauribilmente divertente (almeno per lui) quindi prima che ripartiamo per l’Italia probabilmente manderemo in corto circuito il sistema elettrico del nostro cubicolo di 12 metri quadrati e a catena genereremo un blackout in tutta Taipei. Altra cosa che gli piace: la lavatrice, che come quasi tutti gli elettrodomestici quaggiù, produce musichette sia quando si accende che quando si spegne. Proprio musichette, non semplici bip, melodie di vari secondi. Ma non ci stupiamo troppo perché in questa città è tutto un trillare e scampanellare, dai tornelli della metro al camion della spazzatura che (non stiamo scherzando), suona “Per Elisa”. Sul serio. Tiritiritiri taratà, tarararì, tarararà…. 


Siamo stati allo zoo, che è grande e molto bello, immerso nella “giungla” che circonda la città, perché l’assistente sociale ci ha detto che voleva andarci. E quindi, zoo. Certo, dopo venti passi ha cominciato a chiedere “bao bao” (prendimi in collo). Non è un gran camminatore. Sul piano fisico, in effetti, è indietro su tutta la linea. Ma non è nemmeno una piuma, e quindi questo zoo ce lo siamo girati palleggiandocelo in braccio e vagando zavorrati dai daxiang (gli elefanti) alle changjinlu, anzi le CHANGJINLU CHANGJINLU CHANGJINLU!!!!!! (le giraffe). Niente comunque ha riscosso tanto entusiasmo quanto le galline che giravano libere all’ingresso dello zoo, inseguite in preda al terrore da una mandria di umani sotto i sette anni (Muji! Muji! MUJIIIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!).


Oggi invece, visto che c’era un sole stupendo, lo abbiamo fatto stancare a dovere al parco giochi, anche perché appunto ci hanno detto di puntare a fare “physical training” e allora via scivoli a ripetizione, corse varie, grandi scalate sul castelletto…. Forse è per questo che dorme, in effetti! È stato abituato a fare tante cose da sé, mangiare, mettersi i vestiti, asciugarsi i capelli col phon, buttare via gli innumerevoli fazzoletti che chiede ogni 5 minuti per pulirsi (eh vabbè, avremo tempo per parlargli di impatto ecologico!), addirittura piangere in silenzio poveretto, che  una cosa che spezza il cuore… speriamo di conservare il bene fatto, di non essere troppo diseducativi! e di fargli capire cosa è una famiglia, che è quello che deve veramente imparare. 

Ha vissuto in un mondo sempre poco prevedibile. Gli educatori vanno e vengono, gli amichetti durano per un po’, qualcuno va via e ne arrivano di nuovi. Quando Damiano è andato a comprare il latte sotto casa lui ha chiesto a Diletta, senza particolare sconcerto, ma con vera curiosità: “baba lai ma?” (più o meno “il babbo torna?”). 

Dovrà imparare che noi due saremo nei paraggi per un bel po’. Tipo per sempre. Insomma alla fine speriamo di fare il suo bene, come tutti gli altri genitori del mondo. Quale altra conclusione migliore? 




Per ora, da TaiPei è tutto. Non sappiamo se ci sarà un episodio 4, un po’ perché magari da domani saremo così cotti da dormire prima di lui la sera e così lui può fare la discoteca con le luci (ACCESUO, SPENTUO, ACCESUO, SPENTUO!), un po’ perché vogliamo conservarci queste cose e metabolizzarle per bene, e ci vuole del tempo.

Siamo in cammino, tutti e tre.





venerdì 21 ottobre 2022

UNA COSA VERAMENTE NUOVA Ep. 2

Avete mai sentito qualche vostro amico che vi dice “quest’anno vado in vacanza a Taiwan?” Noi no.


E beh, a torto o a ragione, qua di turisti occidentali ce ne sono in effetti pochissimi. Damiano, coi suoi capelli rossi, viene guardato come fosse un alieno! In questi 4 giorni avremmo visto sì e no 8 turisti non asiatici, e pensate che siamo stati pure al Museo Nazionale del Palazzo (stupendo, tra parentesi) che per fama è tipo gli Uffizi! E’ come se agli Uffizi non ci fosse nessun visitatore di etnia cinese, così per darvi un’idea.


Insomma, l’esperienza è veramente genuina. E forse è per questo che qua sono tutti gentilissimi con noi: perché in Italia i turisti sono tanti e ci stanno un po’ sui maroni, mentre qua siamo una specie rara, ci vedono spaesati e… beh il colmo è questo: oggi un tizio ha acceso un bus apposta per noi e ci ha portati dove volevamo. Avevamo semplicemente chiesto a una stazione di bus quale linea dovevamo prendere per andare verso lo zoo (dove sapevamo ci sarebbe stata una fermata della metro, a cui ormai siamo affezionati), e questi invece, dopo aver capito la nostra richiesta (cioè dopo 10 minuti buoni), hanno confabulato un po’ finché è arrivato un autista che ci ha fatto cenno di seguirlo, ha acceso un bus e ci ha portati a destinazione, ovviamente gratis. Vi immaginate in Italia se facessero così coi turisti?

Sono veramente gentili, ospitali, e ridono e scuotono le mani ai nostri “xiexie” (grazie). A volte non serve nemmeno chiedere. Ti vedono consultare una cartina o grattarti la testa di fronte a un cartello scritto solo in caratteri cinesi e si avvicinano e vogliono aiutarti, anche se magari non parlano inglese. Poi se ne ferma un altro e un altro e in breve un intero capannello discute in cinese intorno a te. In qualche modo la soluzione arriva.
Ieri siamo andati in un quartiere ultra popolare, con case cadenti e tettoie di lamiera (ma magari nei garage vedi parcheggiate le mercedes). Ci siamo arrivati con una linea della metropolitana talmente moderna, enorme e pulita da sembrare una navetta intergalattica, con la stazione che si erge in mezzo a ettari spianati di recente per costruire altri grattacieli. Dentro un mercato stretto tra case e tendoni, sempre un po’ marcescenti e verdognoli perché qui è SEMPRE umido, tra banchi carichi di frutta, verdura e tranci di carne siamo approdati a una piccola parrocchia retta da sacerdoti italiani, che ci hanno accolto a casa loro e ci hanno fatto i passatelli in brodo. E ci hanno donato pasta e passata di pomodoro da portare a casa. E uno di loro fumava persino la pipa e Damiano ha potuto fumare, quindi, come direbbe Manzoni, la c’è, la Provvidenza. 



Altro servizio impagabile, ci hanno aiutato a localizzare un VERO supermercato, perché finora intorno al nostro appartamento e in generale in centro avevamo trovato solo minimarket. Uno ogni cinque metri, letteralmente, ma vendevano solo cibo precotto non sempre identificabile, o patatine e biscotti o frutta tagliata a pezzi in contenitori di plastica. Finalmente abbiamo fatto una vera spesa, perché ok, lo street food è delizioso, ma non di sola soia vive l'uomo.


Qui vivono anche di strambi frutti tipo questi:






Un'altra esperienza degna di nota è stata a Maokong, una località “montana” (diciamo collinare) appena fuori Taipei, a cui si arriva con una funivia. E’ famosa per le piantagioni di tè, e infatti è piena di case da tè, sparse tra le colline e seminascoste nella rigogliosa boscaglia che qui mangia ogni cosa appena finisce il cemento. 
Noi ne abbiamo scelta una con tavolini all’aperto e siamo stati muniti di tutto l’armamentario per prepararci il tè da soli. Incluse le tazze per annusare, che servono solo ad annusare, tipo sommelier: per berlo, il tè va poi travasato nelle tazze fatte appunto per bere. Sparsi qua e là, rubinetti d’acqua calda a cui tornare a riempire il bollitore, e si può andare avanti anche per tutto il pomeriggio, ordinando magari qualcosa da mangiare. Ci siamo goduti l’aria pulita, la vista sui ripidi versanti coperti da una giungla fittissima, l’atmosfera tranquilla e la vista di questa città sterminata dall’alto.



Sì, lo sappiamo che a questo punto comincerete a chiedervi: ma il pargolo? Il pargolo non lo vediamo fino a lunedì per via della politica anti-Covid che è molto severa (almeno sulla carta). Quindi questa settimana non possiamo far altro che esplorare, fare i turisti alieni che corrono nei parchi mentre tutti intorno praticano yoga o tai-chi, e imparare a muoverci e prepararci come possiamo (cioè poco) a quello che sarà l’incontro e il periodo più denso e impegnativo della nostra vita.


lunedì 17 ottobre 2022

UNA COSA VERAMENTE NUOVA Ep. 1

Vabbè, lasciamo perdere cosa è successo dal 2018 ad oggi. È successo veramente di tutto, ma di tutto: cose belle, cose brutte, e una cosa veramente nuova. Così, siamo a Taipei per adottare un bambino, e ci sembrava abbastanza assurdo da raccontarlo.



Non so com’è, ma eravamo seduti alla fine di un sabato mattina quasi normale nel nostro giardino di ottobre e guardavamo la nostra vecchia vita e ci dicevamo cose piccole, cose di tutti i giorni. Era come essere seduti a gambe penzoloni sull’orlo di un burrone, anche se eravamo nel nostro giardino.
E poi sono arrivati i miei genitori per portarci all’aeroporto. Così in un attimo eravamo in viaggio verso questo futuro così enorme, mentre un minuto prima il nostro giardino era così piccolo. Piccolissimo.

Abbiamo volato attraverso la notte, e quando è sorto il sole era ancora notte sull’aereo, tutti dormivano o tentavano di farlo, con i finestrini oscurati e, complice il fuso, ci siamo persi un giorno. Così siamo atterrati che era già tramontato il sole, e Taipei sembrava una specie di città post apocalittica alla Blade Runner, con i grattacieli, le insegne al neon e la pioggia infinita. Tranne che era una città post apocalittica dove tutti sono gentili e sorridono nervosamente e chinano il capo. Ma forse eravamo noi i post apocalittici. Con la nostra vita alle spalle e l’ignoto di fronte.



Comunque, dopo aver faticosamente raggiunto una doccia e un letto; a un certo punto della notte, quando mi sono svegliata per il jet lag alle 3 e non dormivo, mi è venuto persino il pensiero che il sole non sarebbe sorto mai più, visto che eravamo al buio da boh, un numero imprecisato di ore. Poi naturalmente è sorto (e io ero ancora sveglia) e così dalla finestra del nostro alloggio al diciottesimo piano di un grattacielo davanti alla stazione centrale di Taipei ho potuto vedere i riquadri marrone della parete del grattacielo accanto e mi sono tranquillizzata.
Non era un granché come vista, ma almeno c’era ancora il mondo intorno a noi. Siamo scesi a vedere come fosse questa strana città ad altezza d’uomo e con un po’ di luce e… rimane abbastanza strana! Anche se in modo diverso dalla prima sera.

Anzitutto c’è un bel parco proprio vicino a noi, con alberi maestosi e lussureggianti (che ci ricordano che siamo ai Tropici), e poi ci sono un sacco di colori e odori. Su tutto, la salsa di soia, che ok sul sushi a casa una volta o due al mese fa molto esotico, ma qua sembra che pure lo smog odori di soia.

Forse sarà perché i motorini viaggiano accanto ai chioschi, così, tutto per strada, prima vedi un chiosco che bolle strani zamponi in una miscela brodosa, poi ti passa un motorino accanto, poi ti giri e vedi un anziano che gioca a tetris con un vecchio arcade sul marciapiede, con accanto un negozio di pedicure pieno di signore e signori di mezza età e più in là una bottega di agopuntura… il mercato di Taipei è così, e lo chiamano mercato notturno perché si anima quando qua cala il buio, ovvero intorno alle 18.



Tra i palazzi si alternano MacDonald e templi, alcuni piccolissimi con soltanto un piccolo altare e qualche bastoncino di incenso, altri luccicanti e dorati e a più piani, con all’interno delle cascate: sono buddisti o taoisti o della religione traduzionale cinese, o un mix di tutte queste cose! Non importa, qua ognuno ha almeno un dio o una dea da venerare, e in effetti abbiamo visto tanta gente di tutte le età, con le offerte votive più svariate (inclusi pacchetti di patatine) chiedere grazie o buona sorte per sé e i propri cari, o divinare il futuro lanciando tessere a mezzaluna a terra.

Dopo tutto questo insieme di odori, colori, gente, simboli, tutto caotico e affascinante, prendiamo la Metro e… sembra di essere a Londra, anzi meglio. Pulita, larga, veloce, funzionale, impersonale.

Anche questo, forse, fa parte dei tanti contrasti di questo paese, sospeso tra Oriente e Occidente.

E pure noi lo siamo, adesso. E ci lasciamo dondolare un po’ da questa atmosfera.




mercoledì 31 ottobre 2018

Il ritorno delle Fettine Panate




Da bambina non guardavo gli anime. Per vari motivi, tra cui la diffidenza dei miei genitori rispetto all'animazione non-Disney e problemi tecnici di ricezione dei canali Mediaset, come raccontavo qualche tempo fa

In compenso ho il nitido ricordo di aver posseduto da piccolissima svariate audiocassette di Cristina d'Avena, probabilmente regali di conoscenti benintenzionati, che ho ascoltato fino a consumare il nastro. Questo è il motivo per cui conosco fin dalla prima infanzia le sigle più famose di quei cartoni animati che non ho mai visto e, insieme a queste tracce, alcuni strani componimenti che solo a distanza di molto tempo, da adulta, sono riuscita a identificare come canzoni componenti la colonna sonora di una serie tv di cui Cristina d'Avena era la protagonista, una studentessa in medicina che nel bel mezzo degli episodi prendeva a cantare vaghe liriche ispirate a temi pedestri anzichenò, come il valore della simpatia, la magia dei tredici anni, il logorio della vita moderna e via dicendo. All'epoca -avevo quattro o cinque anni- si trattava di testi per me assolutamente incomprensibili, come del resto le orecchiabili sigle riferite a cartoni che non guardavo (mi sono arrovellata a lungo sul significato della sigla degli Orsetti del Cuore), ma tutto mi si impresse nel cervello in maniera così profonda che a quasi trent'anni di distanza mi è stato sufficiente scorrere i titoli della compilation Arriva Cristina su Wikipedia per ricordare perfettamente tutti i brani.



Esplorando però questo oscuro mondo riportato alla luce da un meandro del mio cervello, mi sono resa conto che non si trattava che della punta dell'iceberg. Ho infatti scoperto che l'assurda serie con protagonista Cristina d'Avena nei panni di se stessa era in realtà uno spin-off di un prodotto televisivo ancora più improbabile: una versione live action dell'anime Kiss me Licia in cui Cristina d'Avena interpretava l'eponima eroina (!!!!!!). Sì, esiste (e probabilmente molti tra voi lo sapranno da sempre) una famiglia di telefilm degli anni '80, costituiti da un esorbitante numero di puntate, in cui Cristina d'Avena interpreta la Licia di Kiss me Licia (altro cartone giapponese di cui conoscevo la sigla grazie alle famose audiocassette senza averne mai vista una sola puntata) in un sequel con attori in carne ed ossa inventato di sana pianta dalla rete Fininvest per accontentare il pubblico italiano, che aveva amato a tal punto il cartone originale da trasformarlo in un fenomeno di culto.

Ma cosa sto guardando?!
Cristina d'Avena e un cast di attori vestiti e acconciati in maniera delirante per cercare di replicare nella realtà le improbabili fattezze dei personaggi disegnati vengono ridoppiati con le stesse voci dell'anime, per suggerire, immagino, maggior continuità col prodotto originale, con effetti disturbanti a dir poco. Abbiamo così interazioni allucinate tra un tizio con capelli giallo paglia macchiati di rosso e felpe sbiadite, ossia il love interest "trasgressivo" della protagonista, un tale coi baffi impomatati e una mise da pizzaiolo della Napoli ottocentesca che interpreta il padre, un inquietante pargolo bardato di cappelluccio sulla parrucca ricciuta nella parte del fratellino di lui, e l'immancabile gatto Giuliano (nome tipicamente giapponese) che è, beh, un gatto

Di gran lunga l'attore più espressivo.












La trama, già piuttosto debole in partenza (Licia è una ragazza acqua e sapone che intreccia una relazione con il frontman di una rock band, sotto gli auspici del fratellino minore nella parte dell'improbabile pronubo e malgrado l'ostilità del protettivo padre di lei) viene stirata e avviticchiata su se stessa per l'incredibile numero di centosettanta puntate, articolate in quattro diverse serie (Love me Licia, Licia dolce Licia, Teneramente Licia e Balliamo e cantiamo con Licia). Non ho il cuore di guardarle, ma la pressante domanda "come avranno fatto ad allungare il brodo a tal segno?" non resterà senza risposta.

Circolano infatti ormai in rete le serie integrali, dalle quali solerti internauti hanno estrapolato alcune sequenze diventate instant-cult. La più famosa è quella delle fettine panate, una punta inarrivabile nella storia della televisione italiana, quasi un'icona antropologica. E' una sequenza che dura poco più di un minuto e che vi darà la sensazione di essere sotto l'effetto di sostanze psicotrope mentre assistete allo sconcertante teatrino di Licia-Cristina, Mirko il cosiddetto rockettaro e il pargolo ricciuto che disquisiscono di fettine panate pronunciando per l'appunto queste parole ("fettine panate") non meno di una decina di volte in sessanta secondi. Guardatela. Però vi avverto: riderete, ma non vorrete rivederla una seconda volta. Il livello di trash inizialmente è talmente scioccante che la reazione naturale è la risata incredula. Ma resta sottopelle, come un'intossicazione, e lentamente comincia a rilasciare le tossine. Ripensandoci proverete disagio, addirittura un senso di malessere, l'impressione di aver visto qualcosa del nostro passato collettivo e nazionale che le sabbie del tempo avevano inghiottito e che archeologi dei massmedia hanno tratto alla luce in maniera improvvida, un po' come gli idoli d'oro dei templi aztechi nei film di Indiana Jones, sempre forieri di sventura. Forse è meglio che un certo passato rimanga nel buio per sempre.


Per esorcizzare, comunque, può aiutare l'ascolto sempreverde di Elio, con Arriva Clistere

lunedì 17 settembre 2018

IMPRESSIONI (agricole) DI SETTEMBRE

Quest’anno non ho fatto il consueto post sull’orto estivo, perché, lo confesso, è venuto male. 
Non il post, proprio l’orto!

Non so perché, non è che abbia fatto molto di diverso dagli scorsi anni, ma sono venuti pochi pomodori, poche zucchine, pochi peperoni…. in compenso molti cetrioli, ma i cetrioli non sono trendy, e sono pure troppo acquosi. C’è stato un momento di grandioso successo in cui il mandorlo ha finalmente restituito un bel po’ di dolci frutti dopo anni, ma per il resto è stato un fallimento. (Dile non ha infierito, da brava moglie che si accorge della frustrazione del marito che si crede un agricoltore).
Tuttavia, mi son detto che la mancanza di un post sui frutti di agosto poteva essere un’opportunità per farne uno su quelli di settembre!

Settembre è un mese strano, un mese-soglia: qualcosa finisce (l’estate, le vacanze, le giornate lunghe) e qualcosa ricomincia (l’anno scolastico, le attività delle varie associazioni, la quotidianità in generale). E per l’uomo è così perché egli ricalca i ritmi della natura: anche per le piante questo periodo è di passaggio. Dopo il risveglio primaverile e l’abbondanza succosa dell’estate, la stagione lascia il passo lentamente a colori più tenui, sapori più complessi, tempi più lunghi…. fino alla nostalgia autunnale e al riposo dell’inverno.
I frutti di settembre sono come le persone mature che si avviano alla vecchiaia: hanno una vita ricca dietro di sé, e non si lasciano conoscere facilmente, ma se si ha pazienza e costanza se ne scopre il valore, la dolcezza e l’unicità.

Prendiamo ad esempio quello che nasce qua in via delle Cose Nuove: melograni, noci, semi di finocchietto. Sono cose che già di per sé non sanno di gioventù: hanno qualche ruga (le noci), qualche spina (il melograno), devono essere lasciati seccare (il finocchietto); necessitano di un certo lavorìo per essere raccolti (le noci), per essere mangiati (il melograno), per essere pronti all’uso (il finocchietto).
Persino nei loro colori – che anche un daltonico come me riesce a percepire, talvolta – sono tenui, sfumati, e insieme rustici. Guardateli, già da appena colti sembrano un quadro di natura “morta”:


Eppure, sono anche gustosi, versatili, e abbondanti: l’albero delle noci quest’anno in particolare è stracarico, il finocchietto (che praticamente è una pianta infestante) arricchisce generosamente arrosti e tisane, e il melograno ha un succo dolcissimo e sanissimo.

Ah, quasi dimenticavo, poi c’è lei. Che non cresce  nel nostro orto, ma nel campo di mio padre.


L’uva è la regina dell’autunno. Sta a settembre come il pomodoro a agosto.
E ci dà quel vino che è come il dono più maturo dell’estate che finisce: nei giorni brevi e freddi dell’inverno, ci ricorderà la gioia e l’allegria del sole d’agosto.

giovedì 21 giugno 2018

L'Alveare che dice... perché no?

Negli anni, qua in Via delle Cose Nuove, abbiamo sperimentato diversi modelli di acquisto alimentare alternativi al classico Supermercato, guidati dalla ricerca di una maggiore stagionalità dei prodotti e dal criterio del Km0 (diciamo tendente allo 0, a parte l'orto di casa). 
Si va dalle botteghe di paese alla partecipazione al GAS di Reggello – un paese qua vicino –, fino alla creazione di un GAS con alcuni nostri amici (lo stanzino esterno di casa nostra, più meno sempre aperto, fungeva da magazzino con conseguente via vai di gente... rimarrà negli annali).
Tuttavia queste buone pratiche, eticissime e lodevoli, dopo un po' si arenavano, vuoi per il troppo impegno richiesto per star dietro a ordini, pagamenti e ritiri, vuoi per le pause estive da cui spesso non ci si riprende, vuoi per la scarsa partecipazione sul lungo periodo, vuoi per i prezzi alti e i tempi di attesa lunghi (questo vale soprattutto per le botteghe di paese, alla lunga snervanti)
Finalmente, da un po' di mesi, pare che abbiamo finalmente trovato la soluzione ideale, che coniuga gli ideali etici della produzione locale e stagionale con un'estrema praticità nella gestione degli ordini e dei ritiri, grazie all'apporto del web.
Si tratta dell'Alveare che dice sì! 


Il modello nasce in Francia un po' di anni fa, ma si è diffuso a macchia d'olio (extra-vergine, si intende) in tutta Europa, Italia compresa. E da poco meno di un anno pure il Valdarno vanta il suo Alveare, grazie all'Associazione TerraFranca di Castelfranco Piandiscò! (il nostro glorioso comune)
Il principio è piuttosto semplice: c'è una piattaforma web centrale a cui può aderire chiunque voglia fare da gestore di un Alveare locale. Questa persona si occupa di contattare/trovare:
- le aziende del territorio (secondo alcuni criteri di ecosostenibilità ecc, ma non molto stringenti, anzi piuttosto liberal, tranne il fatto di dover risiedere a meno di 250km dalla sede dell'Alveare), proponendo di aderire al progetto e cercando sempre più di allargare l'offerta.
- una rete di potenziali consumatori residenti nel territorio, soprattutto via web, proponendo di aderire al progetto e stimolandoli nel tempo a contribuire.
- una sede dell'Alveare, che può essere il negozio di uno dei produttori, un fondo del gestore ecc..., dove poter allestire una volta a settimana il "mercato" dei prodotti.

Dalla parte del consumatore funziona così: si aderisce dalla piattaforma web a uno o più Alveari del proprio territorio; ogni settimana si apre l'ordine online, e resta aperto per 5 giorni; se si vuole comprare qualcosa, si va sulla pagina del proprio Alveare, si scorrono i prodotti, si comparano i prezzi, si ottengono informazioni sulle aziende, si riempie il proprio carrello virtuale, e si paga infine con carta di credito... il tutto mooolto user-friendly; si riceve una mail con il riepilogo e un codice relativo all'ordine, di solito un semplice numero; due giorni dopo la chiusura dell'ordine, si va ad un orario stabilito (per il Valdarno dalle 18.30 alle 20) alla sede dell'Alveare e si ritira comodamente il proprio ordine.
Questa fase finale è in realtà la più carina: ogni produttore ha già pronto un sacchetto (o una cassetta) con il numero d'ordine relativo ad ogni consumatore, e sta ad un tavolo come fossimo ad un mercato. Ma non è un mercato, perché manca una delle componenti che maggiormente mina la possibilità di instaurare relazioni aperte e dirette con i produttori, ovvero lo scambio di denaro: questa parte un po' fastidiosa, infatti, è già avvenuta, e al momento del ritiro ci si può concentrare sullo scambiare quattro chiacchiere, e perché no sul gustare qualche assaggino di nuovi prodotti! 


Per quanto riguarda il produttore, che sceglie il prezzo di ogni prodotto, l'adesione all'Alveare comporta la riduzione del 20% di guadagno sul prezzo stabilito: infatti, il 10% va alla piattaforma web dell'Alveare, e l'altro 10% al gestore. Quindi il produttore guadagna l'80% sul costo del prodotto. A conti fatti, non è malissimo.
Certo, questo significa che il consumatore spenderà più che al Supermercato. Ma ne guadagnerà in freschezza dei prodotti, trasparenza nella produzione, stagionalità, bontà, conoscenze nuove, scambi interpersonali arricchenti, e pure quel dolce retrogusto di aver fatto qualcosa di etico e alternativo, che non guasta!

P.S. Ci sono diverse voci critiche sull'Alveare, che farebbe del business aziendale centralizzato sulle "spalle" dei produttori locali... ma secondo noi fare del business in sé non è affatto una colpa, e non è fatto sulle spalle di nessuno, bensì "dando una mano" a quei piccoli produttori che rischiano di essere mangiati dal modello globale del consumo alimentare.

P.P.S. Sia ben chiaro: nessuno ci ha pagato per fare pubblicità all'Alveare!! Con i pochi lettori che abbiamo sarebbe perfino assurdo (e questi vogliono fare business, ve l'abbiamo detto!). Semplicemente, ci stiamo trovando bene, e vogliamo diffondere le cose che ci sembrano ben fatte.